Marco Ansaldo, Il falsario italiano di Schindler, Milano, Rizzoli, 2012
Chi scrive queste note farebbe carte false per fare un libro come quello di Marco Ansaldo. Un vero e proprio “libro dei sogni”, fin dal suo incipit: proporre un progetto di ricerca – senza eccessivi dettagli – sui temi del genocidio ebraico a una casa editrice di fra le più note, vederselo approvato, comprese trasferte all’estero, vitto e alloggio incluso, rendersi conto che l’archivio consultato è in modo quasi esclusivo dedicato ai deportati nei lager nazisti (e non alla Shoah) e quindi, per allungare il brodo, aggiungere come riempitivo le vicende di altre persecuzioni naziste, alle quali, sempre allo scopo di raggiungere una dimensione che giustifichi la copertina cartonata, vengono giustapposte alcune storie di internati militari italiani; poi ritornare dalla Germania dopo qualche mese, consegnare un manoscritto e non preoccuparsi di fornire alcun apparato di note e vederselo pubblicare illico et immediate peraltro con discreto successo editoriale, tanto da consentire una seconda edizione nel giro di qualche settimana. Si potrebbe dire che questo giudizio può essere eccessivamente tranchant, trattandosi di opera di taglio giornalistico e non storico, ma leggendo il volume di Marco Ansaldo, in realtà, ci sembra di essere stati largamente indulgenti. La gita agli archivi tedeschi di Bad Arolsen, dove l’autore – bontà sua – sostiene di essere giunto praticamente per primo (alla faccia di chi, come Brunello Mantelli aveva frequentato questa parte dell’Assia da qualche lustro) si rivela una deludente rassegna di vicende note, talvolta incongruenti, spesso incomplete o comunque non documentate con le acquisizioni storiografiche più recenti, oppure riempite con studi editi da decenni, con l’unico filo conduttore delle “persecuzioni naziste”. Nulla di nuovo nemmeno per quanto riguarda le vicende narrate, se si esclude qualche spigolatura, come la radiografia dei denti di Boris Pahor, forse la cosa più incisiva che si rinviene in un testo sciapo e sostanzialmente superfluo.
La rivoluzione di Salò
Primo Siena, La perestroika dell’ultimo Mussolini, Chieti, Solfanelli, 2012
Il volume è una curiosa e in qualche modo interessante interpretazione del crepuscolo lacustre di Mussolini, ossia una stagione in cui le istanze più radicali (e balzane), represse o emarginate nel corso del ventennio, tornarono alla luce nel bailamme repubblichino. Mussolini, secondo l’autore (singolare figura di balilla di Salò e assieme intellettuale dalle non banali riflessioni storiografiche) lasciò che si avvicinassero ai gangli del potere dell’ultimo fascismo, le tendenze più disparate: ex sindacalisti rivoluzionari alla Pulvio Zocchi, i giovani contestatori del “movimento giovanile repubblicano”, i sacerdoti di oltranzista fede littoria riuniti attorno a Tullio Calcagno e i letterati come Edmondo Cione o Cipriano Efisio Oppo. Ciascuna di queste storie, non sempre approfondite a dovere in passato, viene ripercorsa con dettagli talvolta inediti; il volume si conclude con la storia della mai completata costituzione della RSI, argomento su cui si confrontarono i rancori di anziani liberali come Vittorio Rolandi Ricci, le evanescenti conoscenze giuridiche del giornalista Bruno Spampanato e il corporativismo integrale di Carlo Alberto Biggini. Furono redatte bozze, appunti, saggi, approfondimenti, che però giunsero sulla scrivania gardesana del duce senza produrre alcun effetto reale, anzi, forse convincendolo che l’unico fascismo di cui poteva in qualche modo fidarsi era quello oltranzista e sanguinario delle squadre d’azione e dei battaglioni della milizia rimastigli fedeli prima della sua caduta come dopo l’armistizio: il limite – insuperabile – di questi tentativi di perestroika gardesana, fu l’insormontabile velleitarietà di intenti rispetto alla realtà contingente. La RSI sopravviveva non per forza propria, ma per l’impegno diretto, militare e poliziesco, del Reich hitleriano e lo stesso Mussolini, come rivelato in tempi recenti dall’analisi del corposo carteggio con Clara Petacci, credeva poco o nulla alle acrobazie ideologiche dei propri gregari, mostrandosi spesso non solo scettico, ma annoiato e infastidito da queste manifestazioni di fede in limine mortis del regime. Come fosse compatibile il cruento epilogo della dittatura con i progetti di un parlamento elettivo, è difficile da comprendere, e in questo, purtroppo, servono a poco le riflessioni, comunque inedite, di Primo Siena.
Servilismo e altri racconti
Roberto Festorazzi, Caro duce ti scrivo, Milano, Ares, 2012
Ragionato su una realtà storica di un certo interesse e spesso oscurata, ossia le lacrimose missive che i riverniciati antifascisti post 1945 scrissero direttamente alla segreteria di Mussolini nel corso del ventennio, il volume di Festorazzi ha il difetto di perdersi strada facendo. E’ un peccato, perché le prime pagine del volume, riguardanti l’ondivago atteggiamento di Arturo Labriola, Filippo Turati e Guido Miglioli, risultano di un certo interesse, specie per coloro che su queste figure hanno svolto negli scorsi decenni ricerche tanto intensive quanto attente a sbianchettare tutto ciò che non avesse pertinenza con la più adamantina opposizione al regime. Emergono così una sequela di poco dignitose suppliche al fine di ottenere sussidi e raccomandazioni, lettere mandate da mogli all’insaputa (?) dei mariti e rivendicazioni indispettite della propria fedeltà alla camicia nera a fronte di accuse di tiepidezza verso la dittatura: nulla di nuovo, si dirà. A chi scrive fa comunque un certo effetto non tanto il tono servile di molti scritti, quanto la solerzia degli allievi di questi maestri dai dubbi trascorsi, nel cercare di oscurare le prove della compromissione con l’uomo del fatidico balcone, quasi che si sentisse la necessità nel dopoguerra di fornire una verità ad hoc, "senza se e senza ma", a prova di qualsiasi polemica politica. Purtroppo il volume si perde nelle ultime pagine, che sono una sorta di appendice a un precedente studio di Festorazzi, dedicato al complesso rapporto fra Alberto Moravia e i fratelli Carlo e Nello Rosselli, cugini dello scrittore: un legame dalle molte sfaccettature fuorché quella dell’affetto, come si deduce non solo dal comportamento di Moravia prima e subito dopo l’assassinio di questi protagonisti dell’antifascismo italiano, ma anche da alcune collaborazioni alquanto sorprendenti con i peggiori periodici della destra francese come il “Je suis partout” di Robert Brasillach, che pubblicò a più riprese diverse opere e racconti dell’autore de Gli indifferenti. Per questa e altre spigolature, Festorazzi non offre però una adeguata documentazione, lasciando quindi il lettore a districarsi fra supposizioni e illazioni. Ci dispiace, perché le riflessioni critiche, se supportate in modo solido e concreto, sono sempre uno stimolo per ulteriori approfondimenti della ricerca scientifica. O almeno dovrebbero esserlo.
La svastica come capro espiatorio
Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, Bari, Laterza, 2012
Il meccanismo che portò all'auto-assoluzione collettiva della nostra nazione per i crimini commessi nel corso della seconda guerra mondiale fu lungo, complesso e non sempre lineare; Filippo Focardi, con bravura, riesce a narrare la stratificazione di questo processo, partendo dalla propaganda angloamericana che iniziò fin dal 1940 a imbastire il "mito" del popolo buono tradito e portato in guerra da Mussolini e Hitler. Questa tematica fu poi affiancata del tema del "riscatto nazionale" nel corso della guerra di liberazione, durante la quale peraltro era già possibile vedere tutte le future contraddizioni che attraversavano non soltanto il movimento partigiano, ma le nostre forze armate, le quali non di rado avevano ai propri vertici nella guerra contro i tedeschi gli stessi comandanti che avevano condotto la guerra di aggressione nei Balcani e la successiva repressione antipartigiana. I nodi vennero al pettine subito dopo, con la richiesta di estradizione dei presunti criminali di guerra italiani da parte della Jugoslavia e delle altre nazioni che avevano subito la violenza del nostro esercito, non ultime le ex colonie africane. Fu quindi giocoforza di tutte o quasi le formazioni politiche e dell'establishment militare, affiancato dai media, dai libri e dal cinema, dipingerci come vittima di un equivoco: eravamo sì stati occupanti, ma "alla buona", non crudeli come gli alleati nazisti, tanto cattivi in Italia quanto all'estero, e di cui la letteratura forniva disumanizzate rappresentazioni. Ciò che lascia stupefatti, nell'attenta analisi che l'autore pone alla cronologia di questi eventi, è la persistenza di questo modello, che nei primi anni '60 aveva le peculiarità che - bene o male - si possono riscontrare ancora oggi: esemplari in questo le somiglianze fra i soldati di Italiani brava gente di Giuseppe de Santis (1965) e quelli di Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1989). Le "stecche" in questo coro sono state pochissime, tanto è vero che i pionieristici studi di Enzo Collotti sull'occupazione italiana in Jugoslavia sono rimasti "rara avis" per decenni. Solo recentemente, grazie anche a una nuova generazione di studiosi (e agli stimoli provenienti dalle ricerche di autori stranieri) questo mito si è sgretolato, offrendoci una realtà frastagliata, spesso sgradevole, con la quale però è necessario fare i conti senza ulteriori dilazioni. Siamo grati a Focardi di aver steso le proprie riflessioni in modo chiaro e documentato, lasciando agli studiosi un utile strumento per ulteriori indagini.