Resistenza ai fatti…
Massimo Recchioni, Francesco Moranino, Roma, Derive Approdi, 2013
Riuscire a rivalutare la figura di un personaggio come Francesco Moranino, uno dei pochi comandanti partigiani a non essere riuscito ad avvalersi delle varie amnistie succedutesi dal 1946 in avanti è impresa a parer nostro improba, oltre che controproducente: non si capisce infatti la ragione per cui dovrebbe essere necessario uno studio, peraltro di fattura tutt’altro che eccelsa, per offrire luce (sinistra) a un uomo la cui attività nel corso della guerra partigiana aveva suscitato giudizi tutt’altro che lusinghieri all’interno del movimento di Liberazione.
Recchioni, comunque, si dedica anima e corpo per inquadrare Gemisto in un ottica agiografica, polemizzando con la “storiografia revisionista” ma finendo per fare, a sua volta errori marchiani all’interno dello studio: il generale Enrico Adami Rossi diventa “Adamo Rossi”, il 75° corpo d’armata di Hans Schlemmer diventa “750”, più altre incertezze nelle descrizioni della guerra partigiana in Valsesia (non c’è il nome di un singolo reparto della RSI, ma ovunque si parla di “nazifascisti”, ignorando gli ultimi vent’anni di storiografia sull’argomento).
Desta sconcerto soprattutto la descrizione dell’episodio controverso di cui Moranino fu protagonista, ossia il massacro della missione americana guidata dall’agente OSS Emanuele Strassera, che comportò l’uccisione del comandante, di quattro partigiani e di due donne, con l’accusa di essere “spie fasciste”. Ebbene di quei fatti, praticamente non c’è traccia; l’autore descrive i prodromi, i fatti successivi, si addentra – in modo tutt’altro che sicuro – nella vicenda processuale, ma non dice nulla con precisione su cosa avvenne il 26 novembre 1944 e il 6 gennaio 1945. Non dice che Strassera e i suoi furono spogliati e depredati dei loro averi; non dice che le donne uccise ad inizio 1945 con un colpo alla nuca stavano semplicemente raccogliendo notizie inerenti quel fatto di sangue; non dice che, prima della difesa processuale incentrata sulla ossessione dei partigiani per le spie fasciste, la versione riguardante questi ultimi omicidi era che essi erano da addebitare a militi di Salò. Peraltro, solo di passata, aggiungiamo che alcuni terribili fatti di sangue avvenuti a Vercelli a maggio 1945 non furono addebitati a Gemisto e ai suoi uomini solo perché compresi fra quelli estinti dalla sanatoria che considerò “atti di guerra” pure gli eccidi perpetrati a ostilità abbondantemente concluse.
Presentarsi come raddrizzatori di torti e poi farsi “le ragioni” omettendo fatti o raccontando mezze verità, non ci pare opera deontologicamente corretta. Anche perché pure in seguito Recchioni non migliora il tono; “l’esilio” di Moranino in Cecoslovacchia, in italiano si chiama “latitanza” visto che nel processo a suo carico, il comandante Gemisto fu condannato all’ergastolo, dopo che il parlamento aveva dato l’autorizzazione a procedere contro di lui (sarà l’unico caso fino al 1976…). Che l’autore trovi il modo di infarcire una polemica di dubbio tenore sulla legittimità della corte giudicante, sostenendo che alcuni magistrati avevano trascorsi poco commendevoli nel periodo fascista, serve a poco, in quanto la quasi totalità della magistratura aveva quel tipo di background, ma soltanto a carico di Moranino e pochissimi altri furono emesse sentenze di quella gravità. Così come l’attività oltrecortina, che per molti studiosi tutt’altro che “revisionisti” era quantomeno sospetta, viene dipinta come una specie di soggiorno obbligato, dovuto alle ingiustizie sofferte in patria.
Secondo il nostro modesto avviso, se si vuole rendere un buon servizio alla Resistenza e all’antifascismo, sarebbe bene selezionare con maggiore avvedutezza l’oggetto delle indagini storiche. Talvolta i risultati possono essere contrari a quelli sperati.
Storie bugiarde
Claudio Vercelli, Il negazionismo, Bari, Laterza, 2013
In uno studio attento e approfondito, l’autore riesce a ricostruire dettagliatamente la genesi, l’evoluzione e lo “stato dell’arte” di una bugia, ossia la negazione della Shoah. La definizione migliore del lavoro la dà infatti lo stesso Vercelli, quando parla, nel titolo, di “Storia di una menzogna”, i cui padri sono una congerie eterodossa frutto dell’unione di risentimenti di diverso colore politico e di tradizioni culturali opposte: reduci del collaborazionismo in salsa francese, schegge di un marxismo radicale e intollerante, docenti universitari in cerca di una ribalta per le proprie ossessioni, giornalisti in malafede e in tempi recenti gli oltranzisti islamici e i loro incoscienti “fan” occidentali, burattini nelle mani di corporazioni dedite al terrore su scala mondiale.
Il negazionismo, da culto lugubre per una cerchia ristretta di iniziati, come era negli anni ’50 e ’60, soprattutto oltralpe, è divenuto nei vent’anni successivi oggetto dell’attenzione dei media, fino a divenire, in tempi recenti, anche motivo di interesse per gli studiosi scientifici: con colpevole ritardo, a parer nostro. La storiografia accademica, infatti, ha ignorato per troppo tempo la pervicacia con cui gli “studiosi” dell’inesistenza delle camere a gas, col passare degli anni, si erano comunque creati uno spazio nella cultura contemporanea. Bene fa Vercelli a indagare sulle modalità tutt’altro che banali con cui i “ricercatori non allineati” hanno svolto i propri studi, in quanto si scopre che molti di essi usano forme sofisticate di approccio all’argomento, come l’estrapolazione di alcuni documenti a scapito di altri, l’omissione delle prove certe e la martellante insistenza sulle contraddizioni nelle carte e nelle testimonianze. Dalla Francia, agli Stati Uniti, all’Italia, la mappa delle bugie rivela peculiarità e caratteristiche diverse, ma un unico filo conduttore: l’autorappresentazione di una minoranza di invasati che descrive se stessa come l’unico faro all’interno del buio creato ad hoc dal “giudaismo internazionale”. L’ultima palingenesi, quella a parer nostro più subdola, in quanto gode di diffusione mondiale, è quella del negazionismo a sfondo islamista, che trova – purtroppo – anche oggi credibilità fra i tanti sostenitori del “i sionisti si comportano come i nazisti”: frasi sentite e risentite, purtroppo anche in tempi recenti, anche nel nostro paese.
Un unico appunto possiamo muovere all’autore di questo lavoro documentato e ben strutturato, ossia il voler accomunare il cosiddetto “revisionismo storico” al negazionismo, come esempi di banalizzazione della storia, ossia dal voler creare una narrazione priva di giudizi di merito, nella quale i racconti sono sostanzialmente delle cronologie di eventi. In realtà, a parer nostro, le cose stanno diversamente. Renzo de Felice ha sempre sostenuto altra cosa, ossia, citando la sua Intervista sul fascismo: “I fatti andrebbero prima ricostruiti e poi interpretati, non il contrario, come talvolta fa qualche ricercatore”. Non ci pare che questo invito sia banalizzante, ma, anzi, dovrebbe essere il fondamento per qualsiasi ricerca seria sul nostro passato.
Rivalutare l’antiresistenza?
Vincenzo Podda, , La marcia contro la Vandea, Milano, Lo Scarabeo, 2013
Il volume comprende una giustapposizione di argomentazioni che – purtroppo – non sempre collimano come argomenti o scopi ultimi dello studio. Divisa sommariamente in tre sezioni (la storiografia sul periodo 1943-45, la controguerriglia tedesca, la controguerriglia dell’esercito della RSI) la ricerca presenta approfondimenti e digressioni scarsamente coerenti e di diseguale valore scientifico.
La prima parte è, in buona sostanza, una intemerata indirizzata agli storici antifascisti, a cui l’autore rinfaccia la partigianeria e la pluridecennale superficialità con cui lo studio della RSI è stato affrontato. In realtà, se effettivamente le ricostruzioni delle vicende relative a Salò e la guerra civile sono state oggetto di una attenzione tardiva da parte della storiografia scientifica, è anche vero che negli ultimi vent’anni sono stati pubblicati volumi che hanno colmato gran parte di questo “gap”; negarlo “in toto” ci appare ingiusto, come non ci sembra molto corretto dal punto di vista deontologico, estrapolare tabelle, cifre, quantificazioni numeriche da studi diversi e non contemporanei fra loro: in particolare ci è risultata particolarmente sgradevole una polemica diretta a Giorgio Rochat, le cui analisi numeriche sulla forza schierata da esercito, marina e aviazione nel secondo conflitto mondiale restano un “unicum” da cui è impossibile prescindere.
Più consistente ci è parsa la sezione dedicata alle rappresaglie tedesche nel nostro paese, di cui Podda contesta la cifra “razziale” o “genocida”, come anche la loro funzionalità di monito nei confronti della popolazione civile; in realtà anche in questo caso è difficile trarre una considerazione univoca sui fatti di sangue che costellarono la ritirata tedesca in Italia, anche se, in molti casi, è ben visibile una connotazione compiutamente razziale, a partire dall’applicazione sul territorio nazionale di quelle che erano le norme applicate dalla Wehrmacht nella lotta alle bande sul fronte russo. Descrivere la guerra ai civili come una delle tante appendici alla guerra combattuta, banalizzarne gli esiti, come quando l’autore rileva che i bombardamenti alleati fecero il doppio di vittime civili (e perché non mettere nel conto pure le vittime di malattie epidemiche?) non ci sembra molto utile dal punto di vista euristico. Così come estrapolare singoli provvedimenti di clemenza, come quello di considerare nella primavera 1945 “prigionieri di guerra” i partigiani caduti in mano alle forze armate naziste, significa davvero stiracchiare la storia al fine di giustificare i propri assunti. Tra l’altro non viene considerato come questo preciso argomento fosse tra quelli alla base delle contemporanee trattative fra angloamericani e tedeschi per portare alla resa separata sul fronte italiano.
In conclusione troviamo la parte forse più interessante, ossia quella dedicata alle formazioni antipartigiane dell’esercito di Graziani, ossia RAP, RAU e Cacciatori degli Appennini; in una ben dettagliata narrazione (nella quale purtroppo non mancano alcuni svarioni, come quello di chiamare a più riprese Amilcare il generale Archimede Mischi) si dimostra in modo esaustivo come non soltanto le forze in camicia nera della GNR o del PFR fossero state protagoniste della guerra al movimento di liberazione, ma anche il cosiddetto “esercito apolitico” del maresciallo d’Italia, e ciò per precisa scelta di Benito Mussolini, primo assertore della “marcia contro la Vandea” che dà il titolo al volume.
Difficile dare un giudizio univoco sul volume, anche perché, pure per quest’ultima parte, sono disponibili nuovi e significativi apporti, come quello, in fase di pubblicazione, di Federico Ciavattone, dedicato in modo esclusivo al COGU, l’organismo destinato a coordinare l’intera attività antiribellistica dei reparti in grigioverde con il gladio sulle mostrine. Resta quindi la sensazione di un lavoro strutturato ma non sempre coerente, attraversato da una vis polemica che mina molta parte delle deduzioni presenti nell’opera.