Revisione della revisione?
Sergio Luzzatto, Partigia, Milano, Mondadori, 2013
Nelle prime pagine del volume,
quasi come una “excusatio non petita”, o come monito nei confronti del lettore,
Luzzatto ci rende edotti che sua madre, in età fanciullesca, invece delle
consuete favole o filastrocche, gli leggeva a letto ampi stralci delle Lettere
dei condannati a morte della resistenza dettaglio che a chi scrive pare
agghiacciante: della nostre nottate di bambini insonni ricordiamo fumetti o libricini di
divulgazione enciclopedica; onestamente non abbiamo sentito la mancanza di una
istruzione civica precoce, e ci pare poco comprensibile e solo giustificato
come espediente letterario questo rimando alle virtù familiari, quasi a voler
sottolineare (inutilmente) una superiorità che dovrebbe essere premessa a
quanto di seguito raccontato.
E il seguito è, effettivamente,
rivoluzionario, quantomeno dal punto di vista dell’autore, che dieci anni dopo
la pubblicazione del da lui ampiamente deprecato Il sangue dei vinti, scopre che Giampaolo
Pansa è autore “fazioso ma documentato” e che la guerra di liberazione per come
narrata nella divulgazione resistenziale, è densa di cascami retorici,
ricostruzioni di comodo se non omissioni furbesche. In realtà quindi nulla di
nuovo, anche se Luzzatto, dopo lustri di battaglie in nome dei princìpi
democratici e costituzionali, si trova in modo piuttosto stupefacente a
riportare in nota le deduzioni e i giudizi che il giornalista monferrino aveva
formulato parecchi anni fa. La breve storia partigiana di Primo Levi, che si
concluse con la cattura e la successiva deportazione ad Auschwitz è in fin dei
conti marginale, anche se occupa grande spazio nel lavoro di ricerca e, a
quanto pare, nelle intenzioni dell’autore; il dettagliato racconto delle brevi
settimane da patriota dell’autore di Se questo è un uomo, finisce per diventare
marginale rispetto a tutto ciò che sta intorno, ossia la presenza dei
“partigia”, i ribelli dal grilletto facile e dalla condotta tutt'altro che
immacolata. Il risultato finale è un generale senso di indeterminazione, in cui
le vergognose vicende giudiziarie dei collaboratori e delle spie, dei carnefici
e dei complici, sono affiancate (non sappiamo quanto volutamente) dalle lapidi
e dalle targhe in cui i caduti della Resistenza sono definiti tali anche senza
esserlo. Per poi concludere nuovamente con l’esercizio stilistico che abbiamo
trovato al principio: un bimbo che viene addormentato con la lettura degli
ultimi scritti di uomini seviziati destinati al plotone di esecuzione.
Ci perdonerà Luzzato, ma la
nostra infanzia è stata diversa; forse per questo fatichiamo a comprendere il
fine ultimo dello studio.
Il cielo d’Irlanda
Mauro Maggiorani, La ballata del tempo sottile, Roma,
Gremese, 2013
Conosciamo e apprezziamo da tempo
il Mauro Maggiorani storico e questo racconto ci pare davvero una piacevole
sorpresa dal punto di vista letterario: la “ballata” del titolo è una
appassionante storia familiare che coinvolge e fa riflettere il lettore sulle
contraddizioni del novecento e su quelle del nostro presente, stagioni diverse,
ma unite da una complessità che l’autore coglie appieno, rispettando le storie
dolorose dei protagonisti.
Cosa può riservare a uno studioso
di storia l’incontro con la memoria dolente di un uomo che rammenta un passato lontanissimo di bombardamenti e fughe nei rifugi,
anche se, teoricamente, non era ancora nato? Chi scrive si è incontrato spesso
in interrogativi simili a quello di Niccolò, il protagonista del romanzo; il
parente che non ha detto nulla del proprio passato oscuro, e i congiunti che
chiedono aiuto in modo accorato, sperando forse di aver incontrato una specie
di Virgilio capace di condurre negli inferi del passato (e della coscienza) chi
ha bisogno di sapere “di più”, sono una costante del mestiere dello studioso. E
quindi non si fatica a mettersi nei panni di un disincantato storico del
novecento, il quale, più nolente che volente, finisce per mettersi sulle tracce
di una storia apparentemente assurda, che lo porta in Irlanda, paese con un piede nel presente e uno imprigionato in un
passato difficile da rimuovere, che – in
fin dei conti – assomiglia parecchio alla nostra poco felice nazione.
Qui, poco alla volta, si
sveleranno tutti i segreti che portano un anziano bolognese a comprendere che
la propria famiglia era diversa da quella immaginata e che i buoni erano forse
meno buoni di come gli era stato detto, così come i presunti cattivi erano
assai meno peggiori di come erano stati semplicisticamente raccontati. Niccolò
è immerso a questo confuso “past-present”, che finisce per coincidere con la
propria nebulosa situazione affettiva, anch’essa esito di un passato che non
smette di assillare il presente, e un presente che lo lascia in fin dei conti
insoddisfatto e inquieto, come il cielo dell’Eire sotto il quale si svolge
l’intera storia. La morale che ci pare si possa trarre dalle dolorose storie del
libro di Maggiorani è che nella complessità risiede il principio del vero,
e tante volte possiamo solo constatare, come diceva Gilbert Chesterton che “a
potare troppo l’albero alla fine resta un ramo”. Siamo grati al nostro amico e
collega studioso per aver condiviso con tutti i lettori questa semplice e
antica verità.
Memoria nera
Elia Porta, Una storia vera, Roma, Settimo Sigillo, 2012
Quando si ha a che fare con le
memorie dei reduci di Salò, come tante volte abbiamo sottolineato, si ha la
sensazione di uomini e donne rimasti per tutta la vita fedeli alla propria
stagione giovanile, quasi che l’età matura sia stata una superflua appendice ad
una esperienza eroica e, a suo modo irripetibile. Anche nella descrizione che
Elia Porta fa della sua vita, si riscontrano queste caratteristiche, in questo
caso succedute da una militanza senza oscillazioni all’interno del MSI, vissuta
come necessaria e indispensabile conferma ai propri ideali, evidentemente punti
cardinali al di fuori dei quali non era possibile trovare una
dimensione di impegno sociale e politico.
Nella narrazione, fatta la
consueta tara alle ricostruzioni di comodo, tanto dense di ingenua
partecipazione, quanto del tutto insostenibili anche solo dal punto di vista
della ricostruzione storica, ci sono comunque punti di interesse per il ricercatore;
l’autrice, infatti, visse fin dal principio la tormentata vicenda
dell’aviazione fascista repubblicana, di cui fu non solo spettatrice, ma
attrice diretta, invischiata nelle lotte di (modesto) potere fra i vari
responsabili nominati e destituiti dal grigio duce di Gargnano, ossia Ernesto
Botto, Arrigo Tessari e Ruggero Bonomi: uomini perennemente impegnati, più che a combattere gli angloamericani, a farsi la guerra con denunce, dossier e spiate, di cui anche Elia Porta
fu volontariamente partecipe, sostenendo a viva forza le posizioni estremiste e
filonaziste di Tessari, il cui scopo ultimo era quello di creare una legione
italiana all’interno della Luftwaffe. L’autrice, probabilmente convinta di
offrire al lettore un esperienza a suo modo coraggiosa e coerente, squaderna
così un miserevole affresco di ripicche e delazioni; una zattera della medusa
in cui pochi o nessuno si salva dal generale squallore del declino e della fine
imminente. Il dopo è rappresentato dall’incessante ricerca dell’atmosfera del
“prima”: il fascismo clandestino nella Roma dell’immediato dopoguerra, con tanto
di cruenti (e grotteschi) giuramenti fra pugnali e bombe a mano e le esperienze
lavorative all’estero, sempre all’ombra della dittatura, come nella Repubblica Dominicana di Rafael Trujillo, da cui Elia Porta fugge poco prima del rovesciamento di uno dei più
barbari regimi centro americani.
Il resto, oggettivamente, è noia;
la prosa senza slanci, stanca e pesante, si trascina per qualche pagina,
concludendosi con una ulteriore rivendicazione delle scelte di giovane
fascista. Resta da osservare la smunta appendice iconografica: alcuni scatti
ell’epoca di Salò, una foto con dedica autografa di Peron, che l’autrice aveva
incontrato nella sua trasferta oltre oceano, e un'altra che la ritrae, ormai
novantenne, in pellegrinaggio alla tomba di Rodolfo Graziani. Certe volte il
passato non passa mai perché semplicemente si vuole rimetterlo sempre davanti a
sé.